La Quinta Stagione del silenzio della Natura

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laquintaMentre Hollywood continua a celebrare i supereroi dei fumetti generando illusione e fascinazione, esaltando l’imbattibilità dell’uomo verso ogni calamità, arriva in sala La Quinta Stagione per la regia del belga Peter Brosens e dell’americana Jessica Woodworth, film indipendente a basso costo che ha ottenuto ampi consensi ai festival di Toronto e di Venezia. La Quinta Stagione potrebbe rientrare nella categoria dei film di fantascienza anche se, di fatto, non preconizza accadimenti di un futuro lontano, bensì ciò che potrebbe avvenire oggi stesso per la rivalsa della Natura verso l’uomo che l’ha sfruttata con violenza oltre ogni limite.

Il film è liberamente tratto dal romanzo Io sono Febbraio del giovane americano Share Jones, una fiaba apocalittica dove l’inverno non finisce mai, che ha riscosso grande successo negli Stati Uniti, ora editato anche in Italia da Isbn. I due registi si sono già confrontati con il tema del rapporto uomo-natura con due titoli ambientati l’uno in Mongolia e l’altro sull’altipiano andino, per poi scegliere di girare in soli 31 giorni l’apologo catastrofico della Quinta Stagione nel villaggio della Ardenne dove loro stessi vivono, come a voler lanciare il monito di una cruda riflessione.

Il film racconta del come, all’improvviso, ogni speranza di rinascita della Vita, dopo il freddo inverno, con lo sbocciare della primavera, viene bruscamente e inesorabilmente disillusa da un lento e inarrestabile declino. Le api scompaiono, le vacche non danno latte, le sementi non attecchiscono, il cibo viene a mancare e con esso svanisce ogni speranza. La gente del paese, prima attonita, via via perde cognizione e implode nell’odio verso coloro i quali, ritenuti estranei, diversi, vengono riconosciuti come responsabili portatori della calamità. Il pregiudizio si fa inarrestabile fino all’inutile conclusione violenta. L’individuo è capace di perdere se stesso e la propria coscienza per diventare massa rivolgendo la propria sconfitta di essere umano verso degli innocenti capri espiatori. Emblematica è la prima sequenza del film dove un contadino tenta disperatamente di far cantare il proprio gallo che invece rimane muto, assente. Non è più tempo per il canto. Non è più tempo d’amore nemmeno per i due giovani che tenteranno invano di sopravvivere. Eppure il film amaro e deformante conclude con un seppur vago anelito di speranza.

La fotografia di Hans Bruch Jr è impeccabile, fascinosa, curatissima in ogni dettaglio così come lo sono le singole inquadrature che, più degli asciutti dialoghi, quasi didascalici, rendono il racconto incalzante nell’ineluttabilità della vicenda. La Natura si assenta dal suo essere madre, non nutre, si chiude in se stessa. Le zolle di terra mutano colore nel nero. Tutto domina il silenzio del vento fino a che gli uomini e le donne del paese perdono il loro aspetto di sempre e scompaiono dietro maschere bianche di morte. La Quinta Stagione è un’allegoria pregna di simbolismi e di allusioni visive forti, dove a tratti è difficile districarsi senza un certo fremito, così come può avvenire nell’ammirazione dei quadri visionari di Bosch, di Bruegel che hanno scavato con i loro pennelli nel grottesco dell’animo umano.

Dario Arpaio

 


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