La Grande Bellezza di Paolo Sorrentino

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Non sappiamo ancora a quale film verrà assegnata la Palma d’Oro dalla giuria del 66° festival di Cannes. Mai come in questa edizione l’operato dei giudici è arduo per il gran numero di titoli di grande interesse. Certamente La Grande Bellezza di Paolo Sorrentino può rientrare a pieno titolo nel gioco delle premiazioni. Perché tutto è un gioco, a volte duro, atroce, altre ricco di sentimento, ma sempre denso di emozioni. In fondo è il gioco stesso della vita che viene a concorso.

La Grande Bellezza è una riflessione profonda sulla vita da parte di uno dei nostri migliori cineasti in assoluto. Paolo Sorrentino mette se stesso in gioco, offre il suo occhio privato attraverso il quale scrutare nell’anima mundi, quella di una Roma matrona e un po’ cialtrona, dove la vita pare sperperarsi di notte, ma che è sempre capace di risorgere, rinnovandosi ogni giorno al nuovo sole. Una città unica al mondo, che accoglie e ammalia come nessun’altra, capace com’è di alimentare sogni o generare speranze senza fine. Il film però non è una cartolina della grande città, ma è come la vive – o la subisce – il protagonista, una sorta di alter ego del regista, impersonato da un grandissimo Toni Servillo nei panni di Gep, scrittore di un unico romanzo, giornalista a tempo perso e, soprattutto accanito attore delle notti festaiole, dove il carosello dei sogni perduti non si spegne mai.

Gep partecipa da protagonista, conosce tutti e tutti lo cercano. Lui non si tira mai indietro e balla tra sconclusionati ricchi dell’ultima ora, in mezzo a politici arraffoni, tra gran dame e piccole starlette, o delinquenti in deliquio di onnipotenza. Ognuno fagocitato in una babele quasi irriconoscibile a se stessa. Ma poi Gep se ne va, solo, a ogni albeggiare, accendendo l’ennesima sigaretta, lasciandosi andare a lunghe passeggiate. Rinasce in quella luce capace di svelare angoli di strade che sprizzano magia, come forse solo a Roma è dato di vivere in quella intensità.

E la vita di Gep si snocciola così, nella grande bellezza della danza alla quale ognuno di noi partecipa, magari inconsapevolmente, come vuole la citazione che apre il film, tratta dal romanzo Viaggio al termine della notte di Céline, che ci avverte come la realtà sia in fondo solo astrazione, finzione. E come lo stesso Gep afferma, il segreto è lasciarsi catturare da quegli sparuti inconsistenti spazi di bellezza per rifuggire da quello squallore vacuo che l’uomo miserabile di oggi è quasi obbligato a inseguire.

Grande la fotografia di Luca Bigazzi che nutre ogni inquadratura, offrendone alcune davvero commoventi, altre drammaticamente affascinanti, nel dolente disincanto voluto da un grande Sorrentino.

Tante sono le maschere che sfilano nel film, ognuna partecipa puntuale al grande affresco del regista. Ogni attore offre di sé il meglio. Tra tutti Sabrina Ferilli nei panni di una spogliarellista, Roberto Herlitzka nelle vesti di un cardinale più attento all’audience che alla preghiera, Pamela Villoresi contessa e madre incapace, Isabella Ferrari amante perduta, Carlo Verdone, un romanticone illuso e disilluso, ma così tanti e tali sono i personaggi che se ne perde memoria.

Dario Arpaio


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