Cesare deve morire di Paolo e Vittorio Taviani

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Cesare deve morire, e morirà, così come ce lo raccontano i fratelli Taviani nel loro film grazie anche all’impegno di Fabio Cavalli e della sua compagnia teatrale dei carcerati di Rebibbia. Ogni anno, nel braccio di alta sicurezza dell’istituto di pena romano, si allestisce un laboratorio teatrale e Cavalli ne è il conduttore.

Paolo e Vittorio Taviani hanno girato le riprese della preparazione e della messa in scena dell’opera di Shakespeare non solo in forma di un asciutto documentario di  76 minuti, ma come un vero e proprio lungometraggio a soggetto, dove gli improvvisati attori penetrano le battute del bardo, interpretandole nei propri dialetti d’origine, trasfigurando la fissità della prigione in un’esperienza teatrale forte, uscendo e rientrando da se stessi nei rispettivi personaggi.

Intendiamoci, non viene offerta nessuna forma di facile lirismo o di buonismo. Alcuni degli interpreti del film sono condannati all’ergastolo, altri per spaccio o per appartenenza alla camorra, per omicidio. La prigione è la loro realtà. Il soffitto bianco, fissato supini sul letto, è il loro unico interminabile orizzonte. E’ l’opprimente schermo dove cercare, quasi a tentoni, a volte invano, i volti dei cari o delle memorie perdute.

Cavalli e i Taviani offrono loro un sostegno, una via di fuga, seppure momentanea, nella libertà della recitazione, nell’interpretazione dei temi shakespiriani contenuti nel Giulio Cesare, e loro li riconoscono, li fanno propri. L’onore, il tradimento, la devozione, l’omicidio sono vie già percorse da ciascuno in base alla propria esperienza di vita vera e trarne un risultato immediato è cosa fatta.

La macchina dei Taviani recita, a sua volta, la privazione della libertà nella pena da scontare. Le immagini dei muri, dei corridoi parlano ai nostri occhi, raccontano, ci mostrano una realtà così lontana dal nostro quotidiano di gente perbene. Nessuno di noi lo può capire fino in fondo se non l’ha vissuto. Noi viviamo ogni giorno della nostra vita. Per i reclusi non c’è l’oggi. Il tempo si dilata nella pena da scontare, si confonde, si frantuma tra la luce e il buio.

I Taviani guardano attraverso l’occhio della macchina da presa, addomesticato dalla loro magia, e ci raccontano il dramma, senza compiacimento, quasi con distacco, come solo i grandi cineasti, anche se ottantenni, sanno. In Cesare deve Morire scelgono di alternare –sapientemente- il bianconero al colore, e la cupezza dei toni si contrae fino a esplodere nel finale colorato della morte rossa alla quale si sottomette Bruto, distrutto, dilaniato nell’animo dalla sconfitta della libertà, ottenuta solo attraverso il tradimento e l’assassinio. Al termine ognuno rientra nella propria cella.

Grande merito hanno avuto i due registi in questa difficile scelta artistica, fino a ricevere l’Orso d’Oro al festival di Berlino, subito criticato dalla stampa tedesca, secondo la quale i Taviani hanno ottenuto solo una sorta di riconoscimento alla carriera. Probabilmente tifavano per qualche connazionale. In Italia, viceversa, si è subito applaudito a una vittoria del Paese e, giustamente Nanni Moretti, distributore del film con la sua Sacher, ha evidenziato, con una sorta di vena polemica, che il premio è solo il giusto merito dei due grandi registi.

I Taviani hanno davvero firmato un grande film, l’ennesimo della loro lunga vita artistica e Cesare deve Morire ha anche il pregio di farci riflettere su quanto sia impellente consegnare ai carcerati, seppure rei di delitti, una detenzione nei limiti della decenza, senza piagare la loro dignità di esseri umani in celle sovraffollate e invivibili.

Tra gli interpreti, Salvatore Striano impersona intensamente Bruto. Lui ha terminato di scontare la sua pena nel 2006 ed è ritornato dietro le sbarre solo per recitare nel film. Il mestiere d’attore lo sta vivendo anche nella realtà e lo ricordiamo anche per un ruolo nel film Gomorra. Giovanni Arcuri (Giulio Cesare) ha scritto un libro di memorie. Così come ha fatto anche Cosimo Rega, Cassio nel film.

Dario Arpaio


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