Marco Bellocchio e Bella Addormentata

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Si devono tenere i pugni in tasca, tanto per citare il titolo di uno dei film che hanno fatto grande il regista Marco Bellocchio. Sì, tenerli ben serrati per non agire d’impulso o seguendo la corrente, ma imparare a discernere con vivo e autentico senso critico la realtà che ci circonda, rimanendo liberi nel pensiero, al di là di ogni etichetta. Troppo facile e riduttivo rifiutare il dubbio e appartenere del tutto a questo o a quello, prima o poi si può sbagliare, anche in nome della verità, se si demanda altrove la scelta di campo. Bellocchio ha presentato a Venezia 69  la sua ultima fatica, Bella Addormentata, dove si alternano le vicende personali di alcuni personaggi immaginari con la cronaca degli ultimi giorni di Eluana Englaro. Una lettura accorata, descrittiva, della storia di quei giorni senza prendere parte o posizione. Tutti ricordiamo lo sciacallaggio mediatico intorno alle tesi pro o contro l’accanimento terapeutico, il grottesco carosello dei partiti, le ire dei più, il discernimento dei pochi.

Bellocchio ha ricevuto applausi e altri ne raccoglierà per questo suo film intensamente bello e drammatico. Il cinema di un maestro come Marco Bellocchio è capace di andare oltre gli schemi, non esprime pregiudizi, non commenta, espone ciò che è capace di rappresentarsi da sé, in quanto tale, nei significati più profondi. Il gusto del pubblico è sovrano, ma andrebbe comunque educato. Alcuni comunicati del “Movimento con Cristo per la Vita” hanno addirittura affermato come Bella Addormentata abbia ‘ucciso’ per la seconda volta la giovane Eluana. Difficile approvare l’intimidazione integralista, da qualunque pulpito venga.

Il film racconta, con lucido distacco, quattro storie immaginarie vissute nello spazio dei tre giorni che portarono gli occhi di tutti sulla clinica di Udine dove era ricoverata Eluana. O meglio, quelli dei media, nel loro costante tentativo di scavare nel torbido, spacciandolo per informazione dovuta. Quasi non c’è sequenza o inquadratura dove non sia presente un piccolo schermo con gli interventi dell’una o dell’altra parte politica, o con le immancabili gaffes dell’allora Presidente del Consiglio.

Nel cast spicca la misurata drammaticità interpretativa di Toni Servillo, sempre eccellente per bravura, nei panni di un senatore dilaniato dal dovere della scelta, ovvero se stare con la propria libera coscienza o seguire i diktat del suo partito di centrodestra. L’illustrazione dei politici e del loro cinico disputare, addirittura scommettere, è forse la parte migliore del film. Li vediamo calati in una piscina, tra i vapori di una sorta di hammam felliniano, vivere con distacco le vicende della povera gente. Il partito, la volontà del partito è al di sopra di ogni azione, sennò resti isolato e poi chi ti tira fuori di galera, ricorda un compagno di partito a Servillo.

Roberto Herltizka, anche lui nei panni di un senatore, ma di professione psichiatra, dispensa antidepressivi ai suoi colleghi e pillole di saggezza disincantata in un cammeo delizioso. Ahinoi! Non saremmo nessuno, senza le comparsate in televisione, in quel mondo fittizio e fasullo che si sta sostituendo sempre più a quello reale e, soprattutto, alle coscienze.

Alba Rohrwacher, cristiana integralista, s’innamora di Michele Riondino, laico, entrambi a Udine per contestare l’altra parte. Isabelle Huppert, bella come una Madonna, combattuta tra fede e speranza laica, prega per la figlia in coma e trascura figlio e marito. Magnifica la Huppert, un po’ meno gli altri. Maya Sansa, nel ruolo di una tossicomane che un giovane medico, interpretato da Piergiorgio Bellocchio, vuole salvare a tutti i costi. Questo forse è il ruolo che rappresenta di più la possibilità dell’autentico risveglio alla vita e conclude il film in una vaga luce di speranza. La vita è più forte della morte, o, forse, sono lo stesso aspetto della nostra povera vicenda umana, così sottomessa al dolore tra pochi sprazzi di effimera felicità.

Bella Addormentata è un film forte che la giuria del festival ha ignorato malamente. Drammaticamente esaltato dalla forte fotografia di Daniele Ciprì, riceverà tutto il successo che merita altrove, magari al Festival di Toronto, che prende il via in questi giorni. Là si vive una kermesse sempre più autorevole e di grande qualità, dove si va al cinema in jeans e non si fischia, dove si fa anche mercato, dove non sfilano personaggi in cerca di visibilità, e dove l’aspetto più importante è il cinema. Meno frivola, più di sostanza.

Dario Arpaio


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