L’Intrepido Antonio Albanese di Gianni Amelio

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albaL’Intrepido poteva essere solo lui, Antonio Albanese, forse l’unico attore italiano in grado di sostenere con garbo e grazie alla sua sottile arte recitativa, il peso di un ruolo difficile come quello affidatogli da Gianni Amelio in un film a tratti toccante. Un po’ Charlot, un po’ Tati, è pur lui, Albanese, a reggere da solo il peso di una sceneggiatura -a tratti sfilacciata- che strizza l’occhio al grande Zavattini. Richiami a parte, la mano di Amelio si vede, la si percepisce nella visione delle strade di una Milano plumbea, volutamente (o)scura come il tempo che viviamo.

Tra le strade della periferia Antonio Pane lavora come ‘rimpiazzo’ a ore, sostituendo chi non può o non vuole lavorare. A volte non viene neanche pagato. I lavori sono sempre di quelli pesanti, sempre più spesso affidati agli stranieri sottopagati. C’è una malinconia amara che pervade L’Intrepido di Amelio che legge il nostro tempo. I giovani non hanno più sogni o non riescono a viverli davvero nel quotidiano. Forse non ne hanno la forza. D’altra parte siamo tutti distratti da ciò che non abbiamo e che desideriamo. Antonio, invece, quella forza la esprime naturalmente, con ingenuità, leggera, mai sopra le righe. Antonio Pane appare sempre sereno, felice per quelle ore in cui può lavorare con la barba fatta e il viso pulito. Sembra alieno, lontano dalla sofferenza e dalla fatica fisica, ma gli affetti a volte gli attanagliano l’animo e lo pongono di fronte a ciò che non può risolvere. Allora reagisce come sa, proponendosi sfacciatamente con la sua semplice visione della vita, sebbene sia conscio di quanto sia gravida di sofferenza. Ma per questo lui non interrompe il suo cammino, lo percorre senza soste fino ad allontanarsi solitario nella notte, con l’obbiettivo che chiude su di lui, alle spalle, come nei film di Charlot.

Ma Amelio pare anche suggerirci che la realtà odierna è un richiamo assai più duro.

La fotografia, affidata a un bravissimo Luca Bigazzi, accompagna il viso di Albanese, lo scruta in ogni dettaglio della sua maschera, lo illumina, lo incupisce, lo reclama al giorno che verrà, proprio quello che forse la sceneggiatura non è in grado di decifrare, perdendosi, tra l’altro, in battute un po’ banalotte o di maniera, affrettandosi poi in una sorta di lieto fine che contrasta con il duro mestiere di vivere che sembra invece essere la specialità dell’intrepido Antonio, come forse Gianni Amelio intendeva raccontare.

Dario Arpaio.

 


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