La Fuga di Martha

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In un’alba livida Martha fugge dalla comunità che l’ha manipolata e resa succube di abusi e di violenze. Corre, attraversa la strada, penetra nel fitto della boscaglia, disperata, inseguita, braccata. Quel muro di alberi, impenetrabile dalla luce del giorno, segna inesorabilmente l’ingresso senza ritorno nelle sue paure più profonde e cupe, nel buio della sua mente strappata. Cercherà rifugio ancora nella protezione della sorella, dalla quale era fuggita andando alla ricerca dell’isola che non c’è. Confusa dai valori di una vita borghese aveva creduto di trovare sfogo ai suoi desideri di vita semplice in una comunità che si rivelerà poi solo un giocattolo perverso, frutto della mente di un presunto guru psicopatico. Non c’è salvezza per Martha. Non c’è vita. Non c’è una famiglia che sappia accoglierla davvero, serenamente. La paranoia più densa è il solo frutto della sua fuga senza scampo.

La Fuga di Martha è opera prima di Sean Durkin, autore anche della sceneggiatura, premiato per la migliore regia al Sundance dello scorso anno e omaggiato anche a Cannes nella rassegna un Certain Regard.

Il film di Durkin è magistrale nell’andirivieni temporale nella mente di Martha, interpretata da una straordinaria Elizabeth Olsen, alla quale molto deve l’eccellente riuscita del film. Di grande effetto è anche la scelta di una fotografia a luce naturale, con luci e ombre che si alternano cupamente soprattutto sui primi piani del volto della giovane.

La macchina da presa di Durkin avvolge lo spettatore in una discesa inesorabile, claustrofobica, con sequenze ipnotiche, prive di dialogo, ma cariche di forte tensione emotiva.

Si dice che il regista abbia inteso rivolgere una certa critica alle tante comunità pseudo libertarie che popolano la provincia americana, ma il soggetto della Fuga di Martha stà soprattutto nel desiderio di libertà, nel respiro di una ricerca che, oggi, pare quanto mai precipitare vittima delle convenzioni sociali che possono solo demonizzare la libertà vera dell’uomo, per condurlo nell’inerzia senza luce di una vacua corsa al possesso. E le menti fragili, come quella della protagonista del film, vacillano e possono deviare nella paranoia, nel delirio cronico.

Richiamando un verso di una canzone di Kurt Cobain, si potrebbe anche affermare, in conclusione, che “il fatto che tu sia paranoico, non significa che non ti stiano dando la caccia davvero”.

Dario Arpaio


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