Che strano chiamarsi Federico secondo Scola

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chestranoI ricordi si affacciano alla finestra della memoria, spesso senza preavviso, magari scoordinati, inizialmente sfilacciati, dando poi inizio a una girandola colorata. Il primo casualmente ne richiama un secondo e questi un terzo, fino a riempire un album zeppo di istanti gioiosi o malinconici. Così tutto inizia a ruotare come in un caleidoscopio o una giostra e si ferma solo se altri si intromette improvvido, disturbando l’alchimia. Dopo dieci anni di assenza, forse Ettore Scola ha iniziato proprio così a pensare di ritornare dietro quella macchina da presa che non sentiva più sua, coadiuvato dalle due figlie, arrivando ad aprire a tutti il suo album della memoria dei cinquant’anni che lo hanno legato all’amico Federico Fellini. Che strano chiamarsi Federico, il film di Scola presentato fuori concorso alla 70° Mostra del Cinema di Venezia, è un atto di devoto omaggio di un amico a quello scomparso, di un grande cineasta a un altro e, come ha sottolineato un commosso Sergio Rubini, tra gli interpreti, durante la conferenza stampa avvenuta dopo la proiezione del film, rappresenta anche un evento insolito in un Paese come il nostro, dove il ‘fratricidio’ tra simili è quasi la norma.

Di fatto, di un vero e proprio film non si tratta, e nemmeno di un documentario, o di un biopic. Non c’è trama narrativa, ma un delicato susseguirsi di ricordi rappresentati cinematograficamente proprio nel Teatro 5 di Cinecittà, là dove Fellini ha girato tanti suoi film. Si passa dal bianconero al colore, in continuo accordo, con un narratore che ci accompagna, quatto quatto, nel dietro le quinte della memoria di Scola. Eccolo Ettore sedicenne che arriva alla redazione del mitico Marc’Aurelio nel 1948, dove qualche anno prima era già approdato un giovane segaligno diciannovenne di nome Federico. Il Marc’Aurelio è stata la fucina che ha sfornato le migliori firme dell’umorismo negli anni a cavallo della guerra. Testata satirica gloriosa dalla quale sono usciti Age, Scarpelli, Steno, Marchesi, Metz, Mosca, Zavattini, giusto per ricordarne qualcuno. Era l’ironia il fondamento e la regola di quella redazione di giovani future grandi firme dello spettacolo, un umorismo che, come ha ricordato Scola stesso in un’intervista, è lo strumento capace di giocare con la realtà, irridendola e, a volte, aiutando a migliorarla, solleticando le coscienze. Se non si parte dalla visione della realtà quotidiana, allora è solo comicità futilmente fine a se stessa. L’esperienza al Marc’Aurelio ha segnato profondamente quello che poi è stato il cinema di Fellini e dello stesso Scola. Ma non era solo e soltanto quello il luogo della crescita artistica. Scola racconta anche delle notti felliniane, quando Federico insonne lo coinvolgeva in lunghi tragitti in automobile, originariamente una Lincoln nera, vagabondando senza meta in quella Roma che appariva il luogo ideale dove incontrare macchiette di personaggi abitanti un universo autentico e variegato, quasi un grande magazzino dove attingere idee, volti, storie da trasformare magari in storybook. Il film è a tratti toccante, coinvolgendo lo spettatore a partecipare con tenerezza a ciò che furono quegli anni irripetibili in purezza. E scopriamo i provini di Tognazzi, Sordi e Gassmann per il ruolo del Casanova di Fellini. E riviviamo anche i tanti momenti condivisi dai due con il comune amico Marcello Mastroianni. E vediamo pure scorrere immagini di tanti e tanti film che hanno reso Fellini il più grande regista al quale persino Hollywood, così lontana, ha assegnato ben 5 Oscar.

Che strano chiamarsi Federico, titolo preso da un verso di Garcia Lorca, termina in un tenerissimo splendido pirotecnico giro di giostra dove viene ricordato con grande affetto da Scola, l’amico caro, un irriducibile Pinocchio del nostro tempo, un artista unico, un genio del cinema, spesso imitato, mai eguagliato.

Dario Arpaio


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