Vincere, ben oltre la speranza di Cannes

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vincere-giovanna-mezzogiorno.jpgMarco Bellocchio è uno dei pochi cineasti italiani in grado di stimolare il pubblico internazionale con il suo linguaggio filmico personale, originale, denso, reso ancora più ricco quando viene trasmesso per il tramite di una fotografia a luce naturale, che dilata trasforma, manipola l’immagine come in un dipinto di Rembrandt. Vincere è la sua ultima opera presentata a Cannes e fino all’ultimo ha sperato invano in un premio.

Come noto, la pellicola narra della vicenda di Ida Dalser (Giovanna Mezzogiorno) e del figlio Benito Albino avuto da Mussolini (Filippo Timi). La storia prende il via intorno al 1907. Quando nasce la passione tra i due, Benito Mussolini è direttore della gloriosa testata dell’Avanti, dove alimenta il suo innato istinto  per la comunicazione, che lo porterà a triplicare in poco tempo la tiratura del giornale, sviluppando via via il suo talento fino a ottenere i risultati che sono sui libri di storia. Da quegli stessi, invece, è scomparso, cancellato, il nome dell’amante Ida Dalser, sposata e poi allontanata da lui per sempre, pare solo per opportunismo, per sposare Rachele nell’intento di offrire di sé l’immagine giusta per gli occhi della Chiesa. Questi, grosso modo, sono i fatti.

La prima parte del film è tutta incentrata sulla passione che travolge Ida e Benito negli anni antecedenti la Grande Guerra. Vediamo passare i due amanti dagli ideali pacifisti al duro interventismo contro l’Austria, mentre l’Italia si lascia catturare dal canto del Futurismo, così forte in quel linguaggio fatto di ingranaggi d’acciaio, di velocità, di volontà di guerra, “sola medicina purificatrice di ogni mollezza borghese”.

Nel suo film Bellocchio fa ampio e accorto uso di documenti originali, particolarmente efficace nella parte iniziale. In contraltare vediamo le immagini degli incontri dei due amanti, scolpiti dalla luce naturale della fotografia sapientemente decolorata di Daniele Ciprì, ed esaltata dalle musiche di Carlo Crivelli.

Chiaroscuro, luce e suono aprono, svelano ardori e intimità, quelle stesse che poi urleranno furia e dolore. Il film avanza fino a quello che è, a mio avviso, il vero culmine della prima parte in una sequenza da antologia. Siamo nell’ospedale dove Mussolini ferito in battaglia, assiste, con gli altri ricoverati, alla proiezione su di un grande lenzuolo, steso sul soffitto della camerata, del film Christus di Giulio Antamoro (1916). In questa sequenza Bellocchio interpreta intensamente il  significato dell’immagine, trasferendone il senso del dolore come attraverso uno specchio, anticipando, di fatto, ciò che verrà. Infatti, nonostante poi Ida si privi di tutto per amore del suo uomo (vende casa, mobili, bottega), per sostenerlo nell’impresa di avviare Il Popolo d’Italia, Mussolini la allontanerà per sempre insieme con il figlio nato nel frattempo. L’amore assoluto, la dedizione totale, esclusiva, quasi fanatica di Ida crea disagio, intralcia i programmi di Mussolini,  il quale non esita a cancellarla, anche fisicamente, obbligandola alla reclusione in vari manicomi, dove alla fine morirà nel 1937, inascoltata nel suo grido d’amore e di giustizia.

L’occhio del regista torna, ancora una volta, sulle case di cura che hanno sempre richiamato la sua attenzione di cineasta, anche se nel film la macchina da presa scivola, glissa sopra le atrocità, sfiora appena quelle che venivano autenticamente perpetrate in quei lager, per concentrarsi più sul personaggio di Ida Dalser. Giovanna Mezzogiorno ci mette tutto il suo repertorio di fisicità, di ardore, di dolore che i suoi occhi sanno comunicare anche più degli eccessi urlati.

Nella seconda parte Mussolini appare solo in immagini di repertorio; è ormai nella Storia, via per sempre da quella passione che invece Ida vuole sopravviva in nome di una verità negata, osteggiata, offesa. Il figlio Benito Albino viene fatto crescere lontano dalla madre, cancellato nel suo stesso cognome, oscurato, vilipeso. Morirà nel 1942, anche lui segregato in un manicomio. E’ lo stesso Filippo Timi a impersonare il ruolo del giovane divenuto ventenne, offrendo una interpretazione intensa, all’altezza della bella prova vista in Come Dio comanda di Salvatores.

Insomma, in conclusione, grande regia, ottima fotografia e musiche, più che efficaci gli intepreti. E’ mancato solo un riconoscimento ufficiale del Festival di Cannes.

Dario Arpaio


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