The Artist, tra poesia e tip tap

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Se Woody Allen se ne va a zonzo per Parigi, Michel Hazanavicius passeggia sul Sunset Boulevard a Hollywood. Entrambi scelgono gli anni ’20 come paradigma dell’arte, tra divismo, paillettes, pittori o poeti. Tutto ciò che oggi è strabordante di tecnologie o di mirabilia che ingolfano la nostra vita di effetti speciali (anche in negativo), viene accantonato, sfuma nelle magie che i due registi hanno voluto evocare per un pubblico, il quale ha molto apprezzato il richiamo alla poesia. Certo Woody avrà faticato assai meno di Michel per iniziare a girare il film. Questi ha dovuto attendere otto lunghi anni prima di vedere scorrere sullo schermo il titolo del suo The Artist, per essere poi addirittura invitato all’ultimo momento a Cannes e perfino premiato e in odor di Oscar. Sarebbe curioso, perché no, trasformarsi in una mosca per andare a spiare la faccia di tutti coloro che gli hanno sbattuto la porta in faccia. ‘Come? Vorresti girare un film muto in bianco e nero!? Tu sei pazzo da legare!’.

E invece, proprio come nei film di Billy Wilder, è spuntato fuori un produttore visionario, quasi quanto lo stesso Hazanavicius, ed è stato possibile partire con il primo ciak. Action! Si gira la storia di un superdivo del cinema muto, all’apice del suo successo nel 1927, come specificala didascalia. That’s Hollywood, sfavillio di macchine di lusso, migliaia di fan in delirio per lo pseudo Rodolfo Valentino, almeno nel nome, assai più simile all’acrobatico Douglas Fairbanks nel baffo malandrino. Il caso lo fa incontrare con una giovane intraprendente sognatrice, alla caccia, come tante altre, del successo e della fortuna sotto i riflettori. Lui la protegge, lanciandola nel dorato mondo della celluloide. Lei saprà sfondare ogni porta, superare ogni ostacolo con grande bravura e, soprattutto, si farà trovare pronta al momento dell’avvento del sonoro, proprio quando, invece, il mondo di lui crollerà. Orgogliosamente il divo non vorrà cedere. Lui è The Artist, la sua recitazione è tutta nel viso, nella prorompente mascolinità. Gli è sufficiente se stesso e qualche didascalia per fare sognare il pubblico. Che bisogno c’è di quegli ingombranti microfoni appesi davanti al naso o giù di lì. Via via The Artist precipita nella depressione, fino a che attraverso il bicchiere di whisky può solo intravedere la sagoma di una pistola. E’ la fine. Ma la giovane ragazza divenuta una grande star non lo ha dimenticato. Lo salverà all’ultimo momento. Lo ama e lui tornerà a vivere sul palco con lei. Le note finali di un travolgente tip-tap, che vale da solo tutto il film, ci riportano il frac di Fred Astaire. Ed è questa solo una delle tante tante compiaciute citazioni, preziosamente collezionate da Michel Hazanavicius nel suo piccolo capolavoro, omaggio al cinema che fu. Molto della buona riuscita del film è dovuto alla bravura dei due protagonisti, uno straordinario Jean Dujardin e una frizzante Bérénice Bejo. Ma il vero trionfatore è il cinema muto, pensato dal regista così come era, girato nel formato quadrato originale, nei veri studios di Chaplin, nella casa che fu di Mary Pickford. Tutto intero un mondo di sogno sfila nelle varie inquadrature. E’ come se dietro la macchina da presa si fossero alternati Ernst Lubitsch o King Vidor nel proporre anche il loro punto di vista al giovane regista francese. E lui è andato avanti, senza fermarsi, caparbio e geniale, anche senza i mille mirabolanti artifici del 3D. Silenzio! Ciak! Si gira! Il sogno continua.

Dario Arpaio


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