Sul Lago Tahoe

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sul-lago-tahoe.jpgIn attesa dei titoli già annunciati dal nostro Elvezio e che presto arriveranno a emozionarci nelle nostre sale (Drag Me to Hell, Baària, Unglourious Basterds, La Strada,… e chi più ne ha, ne citi), mi soffermo su di un piccolo film indipendente, ancora in circolazione su qualche schermo nostrano. Varrebbe la pena di non perdere l’occasione per andare a vedere Sul Lago Tahoe, che, nonostante il riferimento del titolo, nulla ha a che fare con lo splendido sito della Sierra Nevada, a cavallo tra Nevada e California.

Più volte ho avuto modo di evidenziare gli aspetti originali del nuovo cinema latino-americano, e il film del regista e sceneggiatore messicano, Fernando Eimbcke, è un’ulteriore riprova della freschezza di quella cinematografia. Sul Lago Tahoe è stato presentato alla Berlinale 2007 dove ha vinto il Premio FIPRESCI e il Premio Bauer e poi ancora come Evento alla 47° Semaine de la Critique a Cannes.

La vicenda, ambientata in un’anonima cittadina dello Yucatan, inizia con uno dei tanti campi lunghi, che torneranno a ritmare sapientemente il corso della narrazione, con la macchina fissa, come assorta, su di uno scenario assolato e desolato. Un ragazzo ha sbattuto con la sua macchina contro un palo e si mette alla ricerca dell’aiuto di un meccanico. Così comincia una sorta di piccola privata odissea, lunga un giorno, dove il giovane Juan incontra vari personaggi sul suo cammino, a volte strampalati o stralunati: una giovane commessa rocchettara con il suo figlioletto, un vecchio meccanico saggio con il suo boxer, un giovane meccanico appassionato di kung fu e di saggezza orientale. Tutti concorreranno, ciascuno a suo modo, pur senza volerlo, pur senza saperlo, anche alla ricerca di un pezzo del Juan che si è perso, di un qualcosa smarrito in fondo all’anima. Tutti quegli incontri, motivati dalla ricerca di un pezzo di ricambio per la macchina in panne, condurranno il giovane protagonista a ritrovare anche se stesso, a comprendere il senso di una fuga sconsiderata, lontano dal dolore per la somparsa del padre, per rinnovare, infine, la voglia di tornare a vivere la sua vita vera a fianco del fratellino e della madre. Ogni incontro, ogni passaggio del film, da una sequenza all’altra, viene come didascalizzato con lo schermo nero, quasi a tralasciare il superfluo della realtà, allacciando la traccia precedente con la successiva solo attraverso qualche suono residuo, come se i rumori nel buio significassero una pausa nell’attesa del vivere.

Eimbcke ci regala un film semplice, eppure profondo, proprio come quel lago Tahoe che compare solo di sfuggita, en passant, in una vecchia cartolina trovata in fondo a un cassetto.

A tratti viene in mente il grande cinema italiano del dopoguerra, quello fatto di artigianato povero ma ricco di grandi invenzioni sceniche e drammatiche. Un cinema senza alcuno scialo, come su Lago Tahoe, al quale non manca neppure un leggero velo di ironia per riportarci al reale.

Dario Arpaio


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