Nebraska, tenero road movie di Alexander Payne

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nebNon si può non ammirare Alexander Payne nel suo continuo inseguire le tracce dell’uomo, nelle sue debolezze, nella sua solitudine accartocciata in sogni a volte un po’ dimessi. Se ripercorriamo i tratti dei protagonisti dei suoi film migliori, da Jack Nicholson in A Proposito di Schmidt, a Paul Giamatti in Sideways, arriviamo al culmine perfetto quanto misurato di Bruce Dern in Nebraska. L’attore 78enne ha ricevuto la Palma d’Oro come miglior attore protagonista all’ultimo festival di Cannes, e non poteva essere diversamente. Il suo Woody è adorabilmente perfetto, con lo sguardo perso nel vuoto, con la sua andatura claudicante, nella sua caparbia volontà di voler raggiungere il Nebraska, anche a piedi dal Montana dove vive, solo per ritirare un premio inesistente, completamente privo di buon senso, alcolista, ma non troppo, desideroso di rientrare in possesso di un vecchio compressore degli anni ’70, bizzoso, irrascibile quanto taciturno, forse un po’ ridicolo, eppur capace di esprimere una tenerissima umanità al tramonto che commuove e rende intensamente partecipe lo spettatore.

L’uso del bianconero di Payne –splendida la fotografia di Phedon Papamichael- è così denso di sfumature di grigio da rendere forte e chiaro ogni minimo insignificante dettaglio della vita di una comunità che pare appena uscita dalla Grande Depressione, diventata sonnolenta, un po’ ipocrita, ma dannatamente vera. Nebraska prende il via dalla cocciutaggine del vecchio Woody nel volere andare a ritirare un premio farlocco, tanto da far persuadere il figlio David, un ottimo Will Forte, ad assecondarlo nella sua innocua follia attraverso un road movie divertente e commovente. Il figlio scoprirà quanto mai ha saputo della vita del padre e il vecchio ritroverà un legame forse trascurato. Non va dimenticata la figura della moglie di Woody, June, una esilarante Kate Grant, capace di irresistibili sfuriate quanto di improvvise e impreviste tenerezze.

Davvero coinvolgente il Nebraska di Payne in grado di farci sorridere ed emozionare, ma soprattutto di riscoprire la fragilità agrodolce di una vita semplicemente sciorinata in giorni apparentemente tutti uguali, sempre nuovi.

Dario Arpaio.


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