Balada triste de trompeta – recensione

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Alex De La Iglesia gira Balada triste de trompeta dopo il discreto successo dei film El dia de la bestia e Crimen Perfecto che lo hanno fatto conoscere e apprezzare. Con Balada viene insignito con il Leone d’Argento per la miglior regia a Venezia 2010 e altri prestigiosi ne colleziona. Da noi arriva solo oggi (!) nelle sale (poche) e chissà quali miopi criteri distributivi hanno influito sulla scarsa circolazione dell’opera. D’altra parte stessa sorte è toccata addirittura allo splendido film di Haneke, Amour, che ha vinto la Palma d’Oro a Cannes. Si va al cinema ma viene proiettato solo ciò che fa cassa con la massa del pubblico. Bene, andiamo al cinema!

Lo spagnolo Alex De La Iglesia viene spesso accostato al messicano Guillermo Del Toro. Già in altre occasioni abbiamo evidenziato come il cinema latino porti linfa nuova a Hollywood, dove la più grande fabbrica di titoli resti attaccata all’intrattenimento senza badare troppo all’aspetto artistico. Fatte ovviamente le debite (poche) eccezioni. Si potrebbe quasi supporre che il sangue latino, di qua o di là dell’oceano, produca, nei due cineasti, stimoli per una creatività diversa che pare attingere a piene mani allo spirito del teatro del Grand Guignol, senza dimenticare che anche Shakespeare spargeva sangue sulla scena a piene mani. Sono la violenza e la morte lo spettacolo della vita, sono solo le facce della stessa medaglia. Tutto si traduce sempre a una sola unica ballata dove, magari, una tromba accompagna l’odio e l’amore, come nel titolo italiano del film di De La Iglesia, Ballata dell’Odio e dell’Amore: in originale è quello di una canzone del 1961 portata al successo da un certo Raphael, che pochi ricorderanno. Ancora meno saranno quelli che ripenseranno al grande Nini Rosso che ne fece una versione italiana dal titolo ‘ballata di una tromba’ nello stesso anno, dove lei suonava e l’altra, la donna, piangeva in un cortile triste dove la gioia può entrare solo per pochi istanti così come nella vita dispone il Fato che se la ride degli uomini con i quali gioca e si diverte.

De La Iglesia è anche ideatore del soggetto e scrittore della sceneggiatura della sua Ballata dell’Odio e dell’Amore, che muove su vari piani paralleli. La guerra civile spagnola e il dopoguerra, passando dal 1937 al 1973, con un epilogo altrettanto drammatico e sanguinoso come l’epilogo. E tutto ruota dentro e intorno al circo, portato a grande metafora dell’esistenza nell’ironia della tragedia. Lo spettatore viene ammaestrato, aggredito, fatto sorridere o inorridire, proprio come il grande spettacolo della vita propone. Così lo immagina De La Iglesia e non lesina i tocchi delicati e teneri a quelli più sfacciatamente aggressivi, disperati. Una ballata a tutto tondo giocata tra l’amore e la morte in quel grande paese che è la Spagna, vista dal regista come terra di passione tra ironia e orrore.
Protagonisti ideali diventano i pagliacci, tanto cari a Fellini, vestono la giubba, infarinano la faccia per il pubblico che non vede i loro tormenti, vuole solo ridere dell’umiliazione, delle beffe che il Pagliaccio Tonto si fa del Pagliaccio Triste, i due amanti della stessa Trapezista. Per lei vivranno il sangue delle cinque (o giù di lì…) della sera.

Tutto inizia con una sequenza iniziale che ha del magistrale, quando i repubblicani irrompono durante uno spettacolo di clown davanti a un pubblico di bambini per reclutare a forza quanti più uomini possibile per fronteggiare l’attacco imminente di un battaglione di nazionalisti. Così il pagliaccio si ritrova con un machete tra le mani e la furia omicida. Marcia o crepa. Uccidi per non essere ucciso.

Al termine del sanguinoso scontro viene imprigionato e condotto ai lavori forzati, quelli per innalzare una grande croce sopra una caverna che, ironia della sorte, conterrà i resti delle migliaia di vittime, omaggio della Guerra Civile. A tutto questo assiste il figlio occhialuto del clown. Il piccolo saprà di non essere mai stato bambino, strappato alla vita, costretto alla vendetta. Da adulto sarà lui a precipitare nella follia clownesca di un amore impossibile per la Trapezista, divisa lei stessa tra la passione per i due pagliacci. L’epilogo sarà tragico e finirà là dove tutto ha avuto inizio. Resteranno solo il cerone di una maschera a coprire le cicatrici, le lacrime e una tromba a suonare la ballata triste.

Film visivamente molto forte, capace di offrire momenti di grande cinema. Sbagliato considerarlo solo un thriller, un horror o qualsiasi altra etichetta gli si voglia affibbiare. De La Iglesia canta la ‘sua’ poesia e se questa risulta a tratti cruda e truculenta, questa è la vita e non dimentichiamo di tradurla anche attraverso la sua tragica ironia.

Dario Arpaio


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