20 sigarette a Nassirya

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Faccio un salto indietro di qualche settimana e torno a Venezia. E’ terminata la proiezione del film 20 Sigarette e la platea risponde con 15 minuti di applausi. Perché? Per un reale apprezzamento nei confronti del film o per solidarietà con Aureliano Amadei che ne è il regista? Lui racconta la ‘sua’ Nassirya, lui è l’unico sopravvissuto dell’attentato del 12 novembre del 2003 che distrusse la vita di 19 nostri soldati.

Amadei porterà per sempre i segni di quel giorno sul suo corpo, azzoppato, senza un timpano e con una ferita nel cuore difficile da rimarginare: si riaprirà puntuale negli attacchi di panico, che ancora oggi lo accompagnano quasi con un senso di rimorso per essere l’unico sopravvissuto.

La sceneggiatura è dello stesso Amadei, tratta dal suo libro scritto dopo i lunghi e dolorosi interventi ai quali è stato sottoposto nel tentativo di recuperargli l’uso della gamba. La trascrizione dei fatti non può che essere fedele. Lui c’era, era lì per girare un documentario. Per scoprire, inaspettatamente, che la sua fede anarchica e pacifista non aveva ancora fatto i conti con l’umanità vera di quegli uomini mandati laggiù a compiere il loro servizio di soldati. Da loro è stato accolto e protetto nelle inevitabili paure che assalgono chiunque sia presente in un teatro di guerra. Ha scoperto, forse con stupore, quel senso di cameratismo che si sviluppa immediato tra uomini calati in situazioni estreme. E’ allora che il suo essere di prima, le sue convinzioni forse hanno anche vacillato di fronte a una realtà più forte di qualsiasi fantasia. In certe condizioni di vita precaria, l’appartenenza al gruppo supera ogni individualità, l’umanità si esalta, più forte che mai.

E poi? Al ritorno si è trovato solo, davanti allo spettacolo meschino del pellegrinaggio ipocrita dei politici intorno al suo letto d’ospedale, sempre pronti a impossessarsi di eroi che non appartengono a loro se non nel calcolo della visibilità; dei media che vivono e vendono, come meglio possono, le tragedie, in quell’accozzaglia di notizie manipolate, trasformate, inventate, ricamate sulle vite spezzate di chi altro non ha seguito se non l’obbedienza alla bandiera e ciò che essa impone a chi è soldato, guerriero.

Nassirya rimane una pagina dolorosa della nostra storia. Lascia due volte l’amaro in bocca, si poteva forse anche evitare. Certo si esalta nel ricordo di chi non ha più l’affetto di quegli uomini che non hanno potuto difendersi. Aureliano Amadei ha visto, ricorda e racconta ciò che è successo, ma innanzi tutto compie un atto di amore nei confronti di quei soldati, di quei carabinieri che gli hanno lasciato il segno indelebile delle loro ultime ore di vita.

Nel film il ruolo del protagonista è affidato a Vinicio Marchioni che dà pienamente sfogo, con forza e delicatezza, a tutta l’umanità che Amadei ha voluto esprimere, per ricordare, ma soprattutto per tentare di svelare, almeno in parte, ciò che forse non sapremo mai: la verità.

Dario Arpaio


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